Friday, October 12, 2007

IL DESERTO


Vengono fatte le scelte. L’infermiere va con quella tipo Uma Thurman, il mio amico con l’olandese, io riesco ad accaparrarmi la ragazza di Marrakesh con diritto al consulente uomo prima del rapporto. Ci conducono attraverso diversi corridoi verso le stanze dove consumeremo gli amplessi. Di nuovo avvistiamo il gruppo dei simpatici migranti Rom. Sono ancora seduti al tavolo da gioco, ma sono circondati da diverse ragazze vestite da fatine, tutte col costumino con le alette, le calze colorate e la cipria colorate sulle gote. Fungono da portafortuna, forse e risuona un po’ il sospetto che niente di sessuale verrà mai consumato in quel contesto.
Si sente una frase proveniente da quel gruppo:
“Fare amicizia è una cosa sempre complicata. C'è un primo momento in cui ci si studia, ci si soppesa, si valuta se la persona che ti trovi davanti è qualcuno di cui potresti fidarti totalmente o solo in parte, a cui affideresti i tuoi pensieri. Dopodichè inizia il momento dei tentativi: si chiacchiera, si familiarizza, si cercano i punti in comune, si ride insieme, ci si guarda con una nuova confidenza. E poi c'è il consolidamento, quello in cui stare con quella persona diventa naturale e bello, non è più fonte di tensione, ma solo di pace; in questa fase non c'è più bisogno di dimostrare niente, c'è già la consapevolezza di essere stati accettati in toto, non si avverte più la necessità di riempire i silenzi, perchè ormai anche quelli sono comprensibili e rilassanti. Forse l'amicizia è quando si è in grado di stare in silenzio insieme.”
Penso che forse quegli uomini più che giocare a carte, quindi sublimare l’aggressività che potrebbe crearsi fra di loro all’interno del gruppo rispetto al ruolo di maschio dominante e queste cose tipiche dei clan di nomadi, stanno puramente cementando i loro migliori sentimenti di amicizia e di amore fraterno.
Intanto l’infermiere mi sussurra:
“Doris lessing ha appena vinto il nobel della letteratura”
“meritato?” Chiedo.

“Bè l’hanno dato a Gunther Grass.” Dice sprezzante l’infermiere.
“Oh Dio per la faccenda che era andato nelle SS?”
“Si vanta di esserci stato alla fine della guerra e di non aver partecipato a fatti di sangue, ma questo è ovvio perché la guerra ormai era finita e non avevano più gente da sterminare, poi vi è entrato quando ormai le responsabilità tedesche sul disastro anche se non sull’Olocausto erano palesi. Le SS non erano l’esercito, e fin qui potrebbero valere scusanti di tipo patriottico, erano per definizione truppe di sterminio, uomini selezionati per uccidere, natural born killers.”
“Sì, ma cosa deve fare quell’uomo? Ritirare tutti i suoi libri dalla bancarelle? Oppure dire leggeteli pure, tirate fuori quel poco di buono che c’è ma fate conto che non sia stato io.”
“Almeno dovrebbe restituire la cittadinanza onoraria di Danzica.”
“Bah, riceve un gesto simbolico e poi lui diniego simbolicamente… troppo complicato…lasciamo che si penta e si strugga da solo e che si goda il fatto di essere sopravvissuto a chissà quanti ettolitri di birra. Parliamo di Doris Lessing.”
“Boh, ha scritto romanzi apocalittici e da femminista ultimamente ha preso la difesa dei maschi, che sarebbero ora oggetti di un certo razzismo rovesciato.”
Finalmente giungiamo a destinazione. E’ una grande sala con tanti angoli organizzati tipo privè con paraventi e altre curiose strutture architettoniche. Ci sono molti caleidoscopi piuttosto voluminosi, almeno di un metro e alcuni acquari, ma i magnifici pesci all’interno sembrano abbastanza finti, galleggiano ma non guizzano e si ignorano fra di loro, a volte fino a scontrarsi. Molti palloni illuminati scendono dall’alto, in stile cinese.
Quindi ci rincantucciamo io, la ragazza di Marrakesh e lo psicoterapeuta maschio ora in giacca e cravatta ma che somiglia in maniera inquietante al maggiordomo eunuco. Non ha più la pelle scura ma si intravedono alcune strisciate di fondotinta tirate via forse troppo in fretta. Subito vuole darsi arie da sportivo e si mette a parlare di una partita amichevole di calcio a cinque svoltasi la sera prima:
“Eravamo otto contro otto in un campo piccolo. Non ci si capiva nulla. Alcuni hanno subito calcioni inverosimili. Nessuno passava la palla, solo un mio amico, certo Ercolino, si è distinto con passaggi molto precisi e due reti fulminanti, ma ora dimmi, amico, parlami di tua madre.”
“Oh Dio, mia madre?” cerco di oppormi. “Ma è proprio necessario? Non è un fattore inibente?”
“Oh ma l’importanza della madre non è così decisiva come ai tempi di Freud.” Dice la ragazza marocchina “Io sono scappata di casa rapita da un capo berbero. Mi piacevano i cavalli, la vita nel deserto. Mi piaceva sentire il calore di quegli animali sotto di me, mi piaceva sapere che c’era sempre la possibilità che si rifiutasse di andare, di progredire nel deserto. E in quel caso sarebbe stata solo colpa mia. La tribù mi avrebbe piantato lì a morire di stenti. Ma non è stato per questo che sono fuggita a Malta. Il fatto che ho ucciso una donna in combattimento, una mia rivale per il cuore di uomo, di un capo. L’ho uccisa con una pietrata, ma poi non sono stata introdotta nella tenda dell’uomo. La mattina dopo ho visto l’uomo che piangeva: era l’altra che voleva e io l’avevo uccisa. Così sono scappata prima che scattasse qualche forma di vendetta, che non era stata immediata solo per rispetto per la lealtà del combattimento, che era avvenuto davanti a tutti. Non è che l’avessi aspettata dietro un dattero e avvelenata con le ghiandole del serpente a sonagli.”
“cosa ne pensi del calore che emana da questa prostituta?” Chiede lo psicoterapeuta.
“Veramente “ dico io “mi ero preparato la risposta su mia madre. Il fatto che già a sette anni mi sono reso conto che mentiva. Più che un bambino. Le sue ricostruzioni dei fatti erano sempre inquinate da qualche bugia o esagerazione. Mi picchiava e mostrava a mio padre le ferite che si era autoinflitta nelle braccia come prova che ero stato io a menare. Così sono cresciuto con qualche complessuccio.”

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