Friday, September 30, 2005

giorgio vasari


Gran cosa è che in tutte quelle virtú et in tutti quelli esercizii ne' quali, in qualunche tempo, hanno voluto le donne intromettersi con qualche studio, siano sempre riuscite eccellentissime e piú che famose, come con una infinità di esempli agevolmente può dimostrarsi a chi forse non lo credesse. E certamente ognun sa quanto elleno universalmente tutte nelle cose economice vagliono, oltra che nelle cose della guerra, medesimamente si sappia chi fu Camilla, Arpalice, Valasca, Tomiri, Pantasilea, Molpadia, Orizia, Antiope, Ippolita, Semiramide, Zenobia; chi finalmente Fulvia di Marcantonio che, come dice Dione istorico, tante volte s'armò per defender il marito e se medesima. Ma nella poesia ancora sono state maravigliosissime: come raconta Pausania, Corinna fu molto celebre nel versificare, et Eustazio, nel catalogo delle navi d'Omero, fa menzione di Safo, onoratissima giovane; il medesimo fa Eusebio nel libro de i tempi; la quale invero se ben fu donna, ella fu però tale che superò di gran lunga tutti gli eccellenti scrittori di quella età. E Varone loda anch'egli fuor di modo, ma meritamente, Erinna che con trecento versi s'oppose alla gloriosa fama del primo lume della Grecia, e con un suo piccol volume, chiamato Elecate, equiperò la numerosa Iliade del grand'Omero. Aristofane celebra Carissena, nella medesima professione, per dottissima et eccellentissima femmina; e similmente Teano, Merone, Polla, Elpe, Cornificia e Telisilla, alla quale fu posta nel tempio di Venere, per meraviglia delle sue tante virtú, una bellissima statua. E per lassar tant'altre versificatrici, non leggiamo noi che Arete nelle difficultà di filosofia fu maestra del dotto Aristippo? E Lastenia et Assiotea discepole del divinissimo Platone? E nell'arte oratoria Sempronia et Ortensia, femmine romane, furono molto famose. Nella grammatica, Agallide (come dice Ateneo) fu rarissima, e nel predir delle cose future, o diasi questo all'astrologia o alla magica, basta che Temi e Cassandra e Manto ebbero ne' tempi loro grandissimo nome. Come ancora Iside e Cerere nelle necessità dell'agricultura, et in tutte le scienzie universalmente, le figliuole di Tespio. Ma certo in nessun'altra età s'è ciò meglio potuto conoscere che nella nostra, dove le donne hanno acquistato grandissima fama, non solamente nello studio delle lettere, com'ha fatto la S Vittoria del Vasto, la S Veronica Gambara, la S Caterina Anguisola, la Schioppa, la Nugarola e cent'altre, sí nella volgare, come nella latina e nella greca lingua, dottissime, ma eziandio in tutte l'altre facultà. Né si son vergognate, quasi per torci il vanto della superiorità, di mettersi con le tenere e bianchissime mani nelle cose meccaniche e fra la ruvidezza de' marmi e l'asprezza del ferro, per conseguir il desiderio loro e riportarsene fama, come fece nei nostri dí la Properzia de' Rossi da Bologna, giovane virtuosa, non solamente nelle cose di casa, come l'altre, ma in infinite scienzie che non che le donne, ma tutti gli uomini l'ebbero invidia. Costei fu del corpo bellissima e sonò e cantò ne i suoi tempi meglio che femmina della sua città. E perciò ch'era di capriccioso e destrissimo ingegno, si mise ad intagliar noccioli di pesche, i quali sí bene e con tanta pazienzia lavorò, che fu cosa singulare e maravigliosa il vederli, non solamente per la sottilità del lavoro, ma per la sveltezza delle figurine che in quegli faceva e per la delicatissima maniera del compartirle. E certamente era un miracolo veder in su un nocciolo cosí piccolo tutta la Passione di Cristo, fatta con bellissimo intaglio, con una infinità di persone, oltra i crucifissori e gli Apostoli. Questa cosa le diede animo, dovendosi far l'ornamento delle tre porte della prima facciata di San Petronio, tutta a figure di marmo, che ella per mezzo del marito, chiedesse a gli operai una parte di quel lavoro, i quali di ciò furon contentissimi, ogni volta ch'ella facesse veder loro qualche opera di marmo condotta di sua mano. Onde ella subito fece al Conte Alessandro de' Peppoli un ritratto di finissimo marmo, dov'era il Conte Guido suo padre di naturale. La qual cosa piacque infinitamente, non solo a coloro, ma a tutta quella città, e perciò gli operai non mancarono di allogarle una parte di quel lavoro. Nel quale ella finí, con grandissima maraviglia di tutta Bologna, un leggiadrissimo quadro, dove (percioché in quel tempo la misera donna era innamoratissima d'un bel giovane, il quale pareva che poco di lei si curasse) fece la moglie del maestro di casa di Faraone che, innamoratosi di Iosep, quasi disperata del tanto pregarlo, a l'ultimo gli toglie la veste d'attorno con una donnesca grazia e piú che mirabile. Fu questa opera da tutti riputata bellissima et a·llei di gran sodisfazzione, parendole con questa figura del vecchio Testamento avere isfogato in parte l'ardentissima sua passione. Né volse far altro mai per conto di detta fabbrica, né fu persona che non la pregasse ch'ella seguitar volesse, eccetto Maestro Amico, che per l'invidia sempre la sconfortò e sempre ne disse male a gli operai, e fece tanto il maligno, che il suo lavoro le fu pagato un vilissimo prezzo. Fece ancor ella due agnoli di grandissimo rilievo e di bella proporzione, ch'oggi si veggono, contra la sua voglia però, nella medesima fabbrica. All'ultimo costei si diede ad intagliar stampe di rame e ciò fece fuor d'ogni biasimo e con grandissima lode. Finalmente alla povera innamorata giovane ogni cosa riuscí perfettissimamente, eccetto il suo infelicissimo amore. Andò la fama di cosí nobile et elevato ingegno per tutt'Italia, et all'ultimo pervenne a gli orecchi di Papa Clemente VII, il quale, subito che coronato ebbe l'imperatore in Bologna, domandato di lei, trovò la misera donna esser morta quella medesima settimana et esser stata sepolta nello spedale della Morte, che cosí s'era lasciata per ultimo suo testamento. Onde al papa, ch'era volunteroso di vederla, spiacque grandissimamente la morte di quella, ma molto piú a' suoi cittadini, li quali, mentre ella visse, la tennero per un grandissimo miracolo della natura ne i nostri tempi. E per onorarla pure di qualche memoria, le fu posto alla sepultura il seguente epitaffio: SI QVANTVM NATVRAE ARTIQVE PROPERTIA, TANTVM FORTVNAE DEBEAT MVNERIBVSQVE VIRVM, QVAE NVNC MERSA IACET TENEBRIS INGLORIA, LAVDE AEQVASSET CELEBRES MARMORIS ARTIFICES. ATTAMEN INGENIO VIVIDO QVOD POSSET ET ARTE, FOEMINEA OSTENDVNT MARMORA SCVLPTA MANV.

ANASSIMANDRO


Vita Fu concittadino di Talete, Ecateo, Anassimene e ad essi contemporaneo. Tesi principali 1) Si interessò molto di astronomia e di geografia, disegnando ad es. una carta della Terra, che considerava sferica e posta immobile al centro dell’Universo. 2) Anassimandro affermava che il principio di tutte le cose, proprio per essere principio di esse, non poteva identificarsi con una delle cose stesse (es. l’acqua o l’aria). Esso era un elemento indeterminato per qualità e infinito per potenza. Ad esso era connaturato un movimento vorticoso, che separava i contrari presenti nell’infinito-indeterminato, anzitutto il freddo dal caldo. Quest’ultimo aveva dato origine alla sfera celeste infuocata; essa, agendo sull’acqua, prodotta dal freddo, per evaporazione, aveva formato i venti e l’aria. L’acqua, essiccandosi, si era trasformata in terra. 3) Nell’acqua erano nati i primi esseri viventi e da essi, per evoluzione, erano derivate tutte le specie, compresa quella umana. L’importanza dell’acqua veniva così ripresa da Talete, ma fatta rientrare in una più vasta e profonda interpretazione, nella quale era abbozzata una interpretazione rivoluzionaria, che sarà sviluppata in modo organico e sistematico solo nell’Ottocento con l’inglese Darwin nel suo capolavoro ’L’origine delle specie’, (1859) . 4) La nascita dei viventi, e dell’uomo in particolare, viene interpretata da Anassimandro, oltre che in una prospettiva scientifico-naturalistica, anche da un punto di vista morale-religioso: il nascere è un misterioso, temerario distacco dal grembo indeterminato-infinito, per tentare e vivere l’avventura dell’esistenza individuale nel tempo. La sofferenza e la morte sono l’inevitabile espiazione, alla quale deve pertanto soggiacere ogni vivente. Ragionamenti "Anassimandro…nato a Mileto, diceva che principio ed elemento delle cose é l'indeterminato, qualcosa cioè che non può essere definito né aria, né acqua, né altro; che le parti mutano, ma il tutto è immutabile; che la terra sta in mezzo, in posizione centrale, ed ha forma sferica. Per lui la luna non ha luce propria, ma è illuminata dal sole; il sole, poi, non è inferiore per grandezza alla terra, ed è fatto di fuoco allo stato puro...Fu anche il primo a disegnare i contorni delle terre e dei mari, e costruì anche un mappamondo."

Thursday, September 29, 2005

sposa son disprezzata


Abbiamo tutti bisogno di un padrone a cui dare in mano i pezzi del nostro non-esistere. Sperando che estranei possano dare un senso a questo incolmabile deficit interiore. Lasciare che siano altri a decidere. Togliersi questo peso dalla mente. Obbedire. Leccare. Annullarsi. Cancellarsi. Pensarsi d'altri. Pensarsi non-propri. Vittime di qualcun altro. Non-vittime di sé stessi. Liberarsi dal peso del proprio destino irrisolto e lasciare che altri lo consumino al posto nostro

Rennes le Château

Il minuscolo villaggio francese di Rennes-le-Château si trova appollaiato in vetta a una collina, a una quarantina di chilometri da Carcassonne, nella regione francese dell'Aude. Pur contando solo una manciata di abitanti, ogni anno è meta di migliaia di amanti del mistero e cercatori di tesori, attirati sul luogo da un corpus leggendario creatosi nel corso di un secolo dal sovrapporsi di tematiche provenienti da ambienti culturali molto diversi.Centro delle ricerche è un presunto "tesoro" che sarebbe nascosto in paese o nei dintorni, presumibilmente ritrovato dal parroco che resse la locale chiesa di Santa Maddalena a cavallo del XIX e XX secolo: Bérenger Saunière (1852-1917).
Il nucleo da cui la leggenda ha preso spunto è un fatto documentato sul quale si è a lungo favoleggiato, arricchendolo di particolari del tutto inverosimili. Durante i lavori di ristrutturazione della parrocchia, infatti, eseguiti tra il 1887 e il 1897, l'abbé Saunière si imbatté in una serie di reperti di cui è rimasta una debole traccia documentale e qualche testimonianza da parte di suoi contemporanei. Troppo poco per identificare con certezza la natura degli oggetti ritrovati. Uno dei diari del parroco parla della scoperta di un sepolcro, che potrebbe aver trovato sotto il pavimento della chiesa, trattandosi dell'antico sepolcro dei Signori del paese il cui accesso era stato murato. Testimonianze oculari parlano del ritrovamento di un contenitore di oggetti preziosi, forse medagliette di Lourdes, forse qualche reperto lasciato sul posto da Antoine Bigou, parroco di Rennes durante la Rivoluzione Francese che fu costretto a fuggire in tutta fretta dal paese per rifugiarsi in Spagna; all'interno dell'altare o in una fialetta di vetro Saunière avrebbe trovato delle piccole pergamene, con ogni probabilità - e seguendo una consolidata tradizione cattolica - legate alla cerimonia di consacrazione della Chiesa.
Dopo i restauri della parrocchiale, Saunière spese enormi quantità di denaro per costruire una serie di eleganti costruzioni tra cui una villa, dei giardini, una balconata panoramica, una torre-biblioteca e una serra per gli animali esotici. Il suo tenore di vita non passò inosservato al vescovo De Beauséjour che, dopo un lungo braccio di ferro per vie legali, sospese Saunière dalle funzioni sacerdotali.
Sin dagli Anni Quaranta del XX secolo Rennes fu più volte visitata da un giovane esoterista francese chiamato Pierre Plantard (1920-2000), che fece amicizia con il curatore delle eredità lasciate da Saunière, Noel Corbu (1912-1968), e raccolse molte informazioni sulla vita del parroco. Corbu, che aveva fatto delle proprietà del parroco un ristorante, era solito favoleggiare sull'origine delle ricchezze di quello che - in seguito ad alcuni articoli sulla stampa locale - fu chiamato Le Curé aux milliards: nei racconti di Corbu, tra l'altro romanziere dilettante, Saunière aveva ritrovato, grazie alla decifrazione delle pergamene ritrovate nell'altare, il tesoro di Bianca di Castiglia.
Gli articoli usciti sull'argomento sulla Depeche du Midi fecero accorrere nella zona decine di cercatori di tesori, tra i quali Robert Charroux, che nel 1962 nel suo libro Trésors du monde parlò del presunto ritrovamento di Saunière. Delle voci che iniziarono a circolare si occupò il custode della Biblioteca di Carcassonne, René Descadeillas: la sua posizione gli consentiva di accedere ai documenti originali intorno alle vicende descritte da Corbu. Nella sua Notice sur Rennes le Château et l'abbé Saunière lo studioso smontò gran parte delle "voci" diffuse da Corbu, pubblicando i documenti che dimostravano la vera origine delle ricchezze di Saunière: una monumentale impresa di vendita di messe per corrispondenza. Sebbene la Notice contenesse diverse imprecisioni (e più di recente si scoprirà che le ricchezze di Saunière non provenivano solo dalle messe ma anche da finanziamenti occulti da parte di filomonarchici che si opponevano alla Repubblica), il lavoro di Descadeillas poteva già fornire una prima ricostruzione corretta delle vicende.
Mentre i cercatori effettuavano i primi scavi nei dintorni del paese, rivelando molti reperti che testimoniano la secolare storia del paese, nel 1956 Pierre Plantard fondava in Svizzera, insieme a tre amici, un gruppo di ispirazione esoterica chiamato Priorato di Sion, il cui nome si ispirava ad un monte nei pressi della città di Annemasse, il monte Sion. Come molti altri gruppi esoterici, anche il Priorato di Sion - nella persona di Plantard - fece enormi sforzi per crearsi un passato glorioso e antico: falsificando una serie di documenti e collegando con personaggi fittizi moltissimi alberi genealogici separati, Plantard intendeva proporsi come discendente dai re Merovingi, e quindi possibile erede di un ormai anacronistico trono francese. Molto del materiale creato a tavolino da Plantard e soci venne depositato alla Biblioteca Nazionale di Parigi sotto molti pseudonimi, tra cui quello di Henri Lobineau, pseudo-autore dei Dossier Secrets che raccoglievano le su citate genealogie collegate ad arte.
Per supportare questa teoria, oltre a tenere una serie di conferenze nella chiesa di Saint Sulpice a Parigi, Plantard contattò lo scrittore Gérard de Sède che, nel 1967, pubblicò L'or de Rennes. Nel libro veniva raccontato il ritrovamento da parte di Saunière di alcune pergamene, corredato da alcune testimonianze. Più di recente gli abitanti di Rennes si sono lamentati che le testimonianze fornite all'epoca erano state gravemente alterate; in particolare, gli scrittori implicati nella macchinazione, intendevano "provare" il ritrovamento di quattro pergamene che fornivano la base documentale dell'invenzione di Plantard. Una signora così si espresse: "Loro non riportavano mai sui loro giornali quel che avevo detto loro, citavano sempre delle pergamene trovate nel pilastro dell'altare sebbene io non avessi mai detto una cosa del genere!". In realtà, le pergamene riprodotte nel libro di De Sède erano state disegnate da Philippe De Cherisey, amico di Plantard, che si ispirò alla letteratura di Maurice Leblanc e ai romanzi su Arséne Lupin, colmi di codici segreti e giochi di parole. Il messaggio nascosto nelle pergamene faceva riferimento ad un tesoro che apparteneva a Sion (dunque al Priorato) e a Dagoberto II e a qualcuno che era "morto là" (a Rennes). Il personaggio che sarebbe morto a Rennes era, nella macchinazione di Plantard, Sigisberto IV. Presunto figlio di Dagoberto (che storicamente si ritiene essere deceduto molto giovane e senza figli insieme al padre), nel racconto di Plantard divenne l'anello di congiunzione tra i Merovingi e i signori di Rennes, dai quali - a sua volta - lui affermava di discendere.
Il libro di De Sède fu letto alla fine degli Anni Sessanta del XX secolo da un giornalista della BBC, Henry Lincoln, che - sconvolto dalle rivelazioni dello scrittore francese - ai misteri di Rennes-le-Château dedicò tra il 1972 e il 1981 tre documentari della serie "Chronicle": The Lost Treasure of Jerusalem? ("Il tesoro perduto di Gerusalemme"), The Priest, the Painter and the Devil ("Il prete, il pittore e il diavolo") e The Shadow of the Templars ("L'ombra dei Templari"). Per il terzo documentario, Lincoln si avvalse della collaborazione di Richard Leigh, romanziere appassionato di esoterismo, e di Michael Baigent, giornalista e psicologo; il successo della serie assicurò al libro che raccoglieva gli studi presentati vendite da capogiro. The Holy Blood and the Holy Grail ("Il Sacro Sangue e il Sacro Graal") fu pubblicato anche in Italia, con il titolo di Il Santo Graal. Nelle pagine del libro, le vicende raccontate da Plantard vennero ulteriormente distorte dai tre autori: attraverso i Merovingi, il fondatore del Priorato di Sion discendeva addirittura da Gesù Cristo, che non era affatto morto in croce, ma si era sposato con Maria Maddalena e aveva raggiunto Marsiglia per dar via a una discendenza che avrebbe poi conquistato il trono francese.Secondo la loro versione della storia, il tesoro che arricchì Bérenger Saunière non era di natura materiale ma documentale: i tre autori sostennero, infatti, che il parroco avesse trovato documenti che provavano la terribile verità della discendenza di Gesù, conosciuta storicamente come dinastia del Sang Real, il "Sangue Reale", termine in seguito corrotto in San Greal o più precisamente Santo Graal. Dietro le ricchezze di Saunière ci sarebbe dunque stata l'ombra del Vaticano, che stava comprando il silenzio del curato sulla scottante scoperta. Era proprio questa "conoscenza" il tesoro maledetto cui avrebbe fatto riferimento De Sède nel suo libro. Essa sarebbe giunta dall'oriente tramite i Catari che a loro volta l'avevano ricevuta dai Templari. Costoro sarebbero stati l'emanazione di un'organizzazione segreta chiamata Priorato di Sion, fondata da Goffredo di Buglione nel 1099. Questo fantomatico gruppo avrebbe avuto a capo, nel corso dei secoli, personaggi sorprendenti: furono Gran Maestri di Sion tra gli altri Sandro Botticelli, Leonardo da Vinci, Robert Boyle, Isaac Newton, Victor Hugo e Jean Cocteau. Il Priorato avrebbe avuto come scopo quello di purificare e rinnovare il mondo intero, radunando tutte le nazioni sotto una monarchia illuminata retta da un sovrano merovingio dello stesso lignaggio di Cristo.I tre studiosi citarono a sostegno delle loro teorie l'indole bizzarra di Bérenger, singolarmente attenta alle allegorie e al simbolismo esoterico, ma - nonostante sulla scia di una tradizione locale dell'epoca, non parrebbe così strano ritrovarvi un modesto interesse per l'esoterismo - non esiste alcuna prova di suoi contatti con ambienti occultistici parigini, come da loro affermato.E' sufficiente un'analisi sommaria del libro dei tre autori per riconoscere la firma di Plantard dietro la finta storia del Priorato di Sion.
Le conclusioni cui giunsero sono ormai oggetto di scherno da parte degli storici più seri. Perfino alcuni studiosi di esoterismo come Mariano Bizzarri e Francesco Scurria scrissero: "Dopo anni di ricerche sappiamo, ora, che la tesi di Lincoln e soci riposa su un cumulo di inesattezze, falsità e manomissioni. […] I pretesi manoscritti sono un falso palese e dichiarato. Non esiste discendenza di Dagobero II, né tanto meno vivono Merovingi pretendenti a un trono che è caduto con Luigi XVI [...] L'Ordine di Sion non è mai esistito; quanto al Priorato, le sue tracce nascono e muoiono con l'atto di registrazione depositato nel 1956. Né l'uno né l'altro sono stati fondati da Goffredo di Buglione, e con i Templari e la Massoneria esoterica hanno tanto a che vedere quanto un terrestre con un marziano".
Nel 1989 Pierre Plantard, in seguito all'imprevista evoluzione della sua storia dovuta al best seller inglese, rinnegò tutto quanto aveva affermato in precedenza e propose una seconda versione della leggenda, sostenendo che il Priorato non era nato durante le Crociate ma nel 1781 a Rennes-le-Château. Incarcerato per truffa, chiuderà in questo modo una carriera costantemente in bilico tra la beffarda ironia e le anacronistiche aspirazioni monarchiche.
Il romanzo di Dan Brown Il Codice Da Vinci riporterà al centro della scena mondiale il Priorato di Sion, affermando - all'interno delle note storiche che precedono il romanzo - che la descrizione storica dell'organizzazione è vera. Sono tali e tanti i punti di contatto con Il Santo Graal che Michael Baigent e Richard Leigh denunceranno Brown per plagio. Henry Lincoln, invece, dichiarerà di non credere più minimamente alle teorie proposte da lui stesso nel libro.
I più recenti studi di Mario Arturo Iannaccone hanno dimostrato interessanti connessioni del corpus leggendario di Rennes con i romanzi di Maurice Leblanc del ciclo di Lupin, aprendo nuovi orizzonti alle analisi storiche degli avvenimenti occorsi nell'Aude di fine Ottocento, che rappresentano il vero enigma di Rennes-le-Château.

Federico Zuccari

[Sant’Angelo in Vado 1340/1341 - Ancona 1609]. Giunto a Roma nel 1550, Federico compi il tirocinio presso il fratello Taddeo e nell’ambito di alcune delle numerose opere da questi intraprese nell’inoltrarsi di quel decennio fece i suoi esordi (Appartamento Carafa nei Palazzi Vaticani, 1556; Orvieto, Duomo, 1559; Bracciano, Castello Orsini). L’arduo problema di distinguere in questa fase la personalità del giovane Federico da quella prorompente del fratello, cui essa si improntava pienamente, è stato affrontato soprattutto negli studi sulla grafica dei due artisti. La prima opera interamente eseguita da Zuccari alla fine del decennio è la decorazione esterna della casa di Tizio da Spoleto presso la chiesa di Sant’Eustachio. Negli affreschi con le Storie di sant’Eustachio recentemente restaurati e nei disegni preparatori si può vedere l’avvio del percorso di Zuccari verso uno stile autonomo accanto alla costante presenza di Taddeo, con il quale continua a collaborare (Storie della Vergine, 1561, Santa Maria dell’Orto). Partecipò poi, in una équipe in cui figuravano fra gli altri il Barocci e Santi di Tito, agli affreschi del Casino di Pio IV° e di alcune stanze del Belvedere (Storie di Mose, 1501-63). Una importante occasione di accrescimento fu un viaggio a Venezia, dove si recò per completare la decorazione della cappella del Cardinal Grimani in San Francesco della Vigna (Adorazione dei Magi, 1564). Durante questo soggiorno lavorò anche nel Palazzo Grimani e in una villa fra Chioggia e Monselice; strinse amicizia con il Palladio, con il quale collaborò. Dopo aver viaggiato nell’Italia settentrionale si fermò a Firenze, dove collaborò agli apparati per l’arrivo di Giovanna d’Austria e per la rappresentazione della Cofonaria dipinse il sipario con una Caccia (1565, modello agli Uffizi). Tornato a Roma nel 1566 è subito impegnato negli affreschi della villa del cardinale Ippolito d’Este a Tivoli; alla improvvisa scomparsa del fratello riuscì a ottenere l’incarico di portarne a termine le opere a Trinità dei Monti, San Marcello al Corso, San Lorenzo in Damaso, nella Sala Regia e nei Palazzi Farnese di Roma e di Caprarola (1566-69). È in questi anni che Federico matura un più distaccato atteggiamento nei confronti del modello stilistico di Taddeo, che pure resta la figura guida in ogni campo della sua attività, distillandone una sorta di codice che ne favori la diffusione. Le due grandi pale per il Duomo di Orvieto; le Storie di Santa Caterina in Santa Caterina dei Funari (1572) e la Flagellazione nell’Oratorio del Gonfalone (1573) sono fra le opere più rappresentative degli anni che precedono un nuovo soggiorno a Firenze, questa volta per un incarico di grande prestigio: scomparso Vasari, Zuccari gli succede per completare la decorazione a pala di Santa Maria del Fiore. che in occasione del recente restauro è stata approfonditamente riesaminata. Nel 1574-75, intanto, aveva compiuto un viaggio in Francia, nelle Fiandre, in Inghilterra, dove dipinge anche un ritratto di Elisabetta I° e ammira le opere di Holbein. Di nuovo a Roma nel 1580, lavora in Vaticano nella Cappella Paolina (ancora incompiuta nel 1585 e dipinge per Santa Maria del Baraccano a Bologna la Processione di san Gregorio, oggetto di aspre critiche nell’ambiente artistico bolognese, cui l’artista risponde con il dipinto satirico della Porta Virtutis gli costa il bando dallo Stato della Chiesa. Non è la sola occasione in cui Zuccari reagì nuche con opere satiriche, alcune divulgate dalle incisioni; la Calunnia nacque dai contrasti con il Farnese durante il lavoro a Caprarola il Lamento della Pittura come risposta alla critiche sorte dopo che furono scoperti gli affreschi del Duomo di Firenze. Nel 1582 Zuccari è a Venezia dove dipinge, in uno stimolante confronto con la pittura veneta, Federico Barbarossa e Alessandro III° per la Sala del Maggior Consiglio nel Palazzo Ducale; ottenuto il permesso di rientrare negli Stati della Chiesa, si reca a Loreto per decorare la cappella dei duchi di Urbino nella Basilica della Santa Casa. Le Storie della Vergine (1582-83) sono opere paradigmatiche di quella tendenza classicista fondata sull’esempio di Taddeo, che era emersa già da alcuni anni nello stile di Zuccari: semplici e solenni composizioni, ispirate a modelli raffaelleschi. in cui l’astrazione del disegno convive con accenti di naturalistica descrizione. Su questa strada Federico elabora uno stile che è il risultato di una complessa operazione di selezione e di Sintesi, in cui i modelli di primo Cinquecento agiscono sia in funzione della chiarezza e della semplificazione che del naturalismo. In questo senso la sua pittura può inserirsi in una linea di tendenza di riforma del manierismo che interessa altri centri italiani e che rispondeva anche alle nuove istanze dell’arte sacra sorte nel clima post-tridentino. Ancora impegnato nella Cappella Paolina in Vaticano, si imbarca per la Spagna dove, dopo Tibaldi e Cambiaso, lavora nell’Escorial (1585 - 1588). Nell’ultimo decennio del secolo si dedicò alla costruzione di una dimora sul Pincio, il palazzetto dalla famosa facciata con i mascheroni. La decorò con un ciclo di affreschi, in cui la glorificazione della propria famiglia si intreccia con quella dell’artista come «virtuoso». La difficile via alla virtù, la « moralità »dell’attività artistica, la dignità dell’insegnamento, il prestigio del ruolo sociale dell’artista, illustrati nel ciclo, sono temi fondamentali della sua concezione dell’arte. Agli anni tra la fine del secolo e gli inizi del successivo appartengono alcune opere in cui gli aspetti iconici e arcaicizzanti si accompagnano ad esiti tra i più felici delle sue qualità squisitamente pittoriche: gli affreschi della cappella degli Angeli nella chiesa del Gesù, quelli della cappella di San Giacinto in Santa Sabina (1600) e alcune opere nelle Marche fra le quali la Immacolata concezione (Pesaro, San Francesco) e la Madonna e santi e la famiglia Zuccari (1603: Sant’Angelo in Vado, Palazzo Comunale). Dal 1603 comincia quel viaggio nell’Italia settentrionale che si concluderà con la morte ad Ancona nel 1609, un viaggio di cui affreschi e pale d’altare segnano le tappe: Venezia, Pavia, Arona, Mantova, Torino, Bologna, Ferrara, Parma. Ne pubblicò una sorta di relazione, in forma di lettere agli amici, nel Passaggio per Italia con la dimora di Parma del Sig. Cavaliere Federico Zuccaro (1608). In questi anni, oltre alle pale d’altare (Cristo in trono e i santi Caterina, Catenna d’Alessandria, Lorenzo, Stefano e Cecilia per la chiesa del Corpus Domini a Bologna, oggi a Pesaro, alla Cassa di Risparmio) dipinse alcuni affreschi, come ad esempio quelli del Collegio Borromeo a Pavia e il perduto; grandioso ciclo della Genealogia dei Savoia, commissionatogli da Carlo Emanuele I° per la Galleria del Palazzo Reale (1606-1608, disegni al Louvre e in collezione. privata inglese). Zuccari fu la personalità più importante della pittura romana dell’ultimo quarto del Cinquecento e l’influenza della sua opera, disseminata in tutta la penisola e divulgata anche oltre i suoi confini dalle incisioni, fu più ampia di quella di ogni altro contemporaneo. Il suo stile, anche in quanto normalizzava il linguaggio manieristico romano ebbe una grande capacità di penetrazione. Federico ebbe un importante ruolo anche nello storia della formazione artistica. Era stato membro dell’Accademia del Disegno e a Roma promosse la rifondazione dell’Accademia di San Luca (1593) fulcro di un vasto quanto ambizioso progetto di riforme. Le teorie artistiche di Zuccari, già divulgate in opuscoli e in memoriali, ebbero una compiuta espressione nel trattato ‘L’idea de’ Pittori, Scultori et Architetti’, pubblicata a Torino nel 1607 in due libri. Egli non distingue, come Vasari, fra disegno e idea ma teorizza l’esistenza di un «disegno interno », che è il «concetto formato nella mente nostra per conoscere qual si voglia cosa», e di un «disegno esterno », «che altro non è, che quello circoscritto di forma, senza sostanza di corpo. Semplice lineamento, circonscrittione, misuratione, e figura di qualsivoglia cosa immaginata, e reale». Dunque il disegno interno è «un concetto della mente, neoplatonicamente desunto da un principio universale metafisico» (Grassi), categoria del conoscere che è all’origine sia del disegno artistico che di quello geometrico-matematico. Il concretarsi dell’opera d’arte dall’interno verso l’esterno è il fondamento della dignità intellettuale del lavoro artistico, idea che si ritrova in tutta l’opera di Federico Zuccari.

ECATEO

Vita Nacque anche lui a Mileto, come Talete, Anassimandro, Anassimene, intorno al 550 a.C. Compì molti viaggi in Occidente, in Asia, descrivendo i luoghi conosciuti nell’opera’Giro della Terra’. Scrisse anche un’altra opera ’Genealogie’. Morì intorno al 480 a.C. Posizione storica e tesi principali 1) E’ considerato il fondatore della geografia scientifica ed uno dei padri della storia (Erodoto attinse molto da Ecateo). 2) Influenzato dall’atmosfera culturale stimolante di Mileto, decisamente razionalista, sostituì alle tradizionali conoscenze vaghe, confuse, leggendarie, una descrizione molto più precisa delle caratteristiche naturali delle varie città e dei diversi popoli visitati; liberò la tradizione delle origini delle varie genti greche dagli aspetti più contraddittori, assurdi, fantastici. Ragionamento “Io scrivo queste cose come a me sembra siano vere, perché i racconti dei Greci sono molti e, come a me pare, risibili.”

Wednesday, September 28, 2005

talete

Talete(Mileto 626 ca. - 548 ca. a.C.), in stretta aderenza alla interpretazione del “metafisico” Aristotele, nella tradizione assume ruolo da protagonista indiscusso, non solo nell’ambito strettamente filosofico. Infatti Talete era una figura popolare nella cultura greca delle faticose origini, e il suo nome variamente collegato a una serie di imprese degne del dio Hermes che ne fanno quasi un eroe, oltre che del pensiero, della scienza e della tecnica. L’alone leggendario che ne circonda la figura e l’opera lo individuacome uno dei sette sapienti, anzi, come il più savio di loro (cfr. Diogene Laerzio, Le vite dei filosofi, I, 28-33). Personaggio poliedrico, spirito razionale e nello stesso tempo contemplativo, il suo operato lasciò un segno importante all’interno di una lunga teoria di fonti documentarie indirette. Erodoto parla di Talete come di un abile consigliere militare del mitico Creso (Le Storie, I, 75) o come organizzatore di un’alleanza in funzione antipersiana. Aristotele ce lo presenta quale esperto di crematistica - l’arte di procurarsi creativamente ricchezza economica - ma il suo profilo si precisa in relazione alla filosofia della physis (natura), della quale va considerato l’iniziatore più accreditato. Alla base del suo pensiero riconosciamo una visione del mondo compiutamente filosofica: ormai non c’è più spazio di manovra per una prospettiva mitica nella quale, sulla scorta di arcaiche teogonie indoeuropee, una o più divinità decidano, a un certo punto (che non è nel tempo né in nessun luogo) di creare - alla maniera in cui un artigiano della creta modella un vaso o un qualsiasi recipiente - il mondo come oggetto dei suoi sconvolgenti divertimenti infantili. Per Talete il pluralismo degli dei, quasi un'olimpica corte dei miracoli, non ha più ragion d’essere, nel senso che alla molteplicità confusamente organizzata dei theòi (gli dei) succede il monismo trasformistico dell’archè-theos (il fondamento-dio o viceversa). L’origine non fantastica del mondo si deve alla trasformazione di una semplice sostanza naturale, potenzialmente in grado di dare “principio” (archè) all’universo e farsi, in prospettiva ilozoistica, “dio” (theòs) : si tratta dell’elemento-acqua. Nonostante sembri alquanto ingenua, la teoria dell’acqua come archè delle diverse cose che costituiscono il mondo, non è priva di una sua coerenza, logica e razionalità, in quanto anche per la scienza moderna l’acqua assolve una pluralità di ruoli biologici, fisici e chimici veramente importanti. Gran parte del corpo umano è composto di acqua, e a livello planetario la mole di acque è molto superiore alle terre emerse. Inoltre, la nascita della vita è sempre collegata all’elemento liquido, all’umidità. Lo stesso Aristotele giustifica così la concezione del filosofo di Mileto: Tuttavia, questi filosofi non sono tutti d’accordo circa il numero e la specie di un tale principio. Talete, iniziatore di questo tipo di filosofia, dice che quel principio [l’archè o primordio] è l’acqua (per questo afferma anche che la terra galleggia sull’acqua), desumendo indubbiamente questa sua convinzione dalla costatazione che il nutrimento di tutte le cose è umido, e che perfino il caldo si genera dall’umido e vive nell’umido. Ora, ciò da cui tutte le cose si generano è, appunto, il principio di tutto. Egli desunse dunque questa convinzione da questo e inoltre dal fatto che i semi di tutte le cose hanno una natura umida, e l’acqua è il principio della natura delle cose umide1”.
L'ipotesi di Talete non solo è accolta come positiva, in quanto contiene al suo interno una prima anticipazione, per quanto vaga e confusa, della causa più povera di tutte, quella materiale, ma anche perché assicura un principio coerente e razionale alla genesi del mondo, un Motore Immobile fragile, etereo, inconsistente nella sua liquida vacillazione, e tuttavia pur sempre un agente creativo che vincola l'essere ad essere, a muoversi in un ambito di attualizzazione e non di pura potenzialità, in questo superando la prospettiva arcaica, dove il reale era sviluppo dell'ideale, il concreto proiezione del fantastico e del possibile, in una dimensione generatrice di miti e realizzatrice di spurie leggende. Aristotele è al corrente di questa visione, antesignana della demitizzazione sofistica prima e socratica poi, ma la integra, rilevando analogie con il punto di vista mitologico, che viene altresì rovesciato nella posizione taletica. Nel rovesciamento e nella demolizione del mitico qualcosa rimane, nella metamorfosi del concetto, che eredita da altre metamorfosi fantastico-virtuali. Aristotele, conscio dei nuovi valori proposti dal primo maestro della Scuola Ionica, risale tuttavia al substrato visionario che li rende possibili in una veste particolare, filosofico-speculativa invece di: poetico-mitopoietico. È bene qui riferirsi alla potenza argomentativa dello Stagirita, nel momento in cui riporta le origini del filosofico ad una precedente fase archetipica, onirica e mitica: Ci sono, poi, alcuni i quali credono che anche gli antichissimi che per primi hanno trattato degli dei, molto prima della presente generazione, abbiano avuto questa stessa concezione della realtà naturale. Infatti, posero Oceano e Teti come autori della generazione delle cose, e dissero che ciò su cui gli dei giurano è l'acqua, la quale da essi vien chiamata Stige2. L'interpretazione di Aristotele sembra voler privilegiare una parentela piuttosto scomoda, a giudicare l'impressione prevalente nella storiografia filosofica, con il mythos, che aveva a che fare con gli elementi e che accorda un certo rilievo all'acqua, all'elemento liquido e all'umidità. Dalla relazione tra Oceano e Teti, cioè dalla confusione simbiotica di acqua e terra, scaturisce la generazione delle cose. Entro le linee di questa leggenda affiora un corrispettivo non filosofico della teoria di Talete, che però supera il tròpos arcaico con un collegamento più scoperto con l'esperienza concreta dell'uomo nella natura, la natura come physis, e quindi scrittura originaria vivente che galleggia sull'elemento-acqua, quasi nave occulta destinata al trasporto dell'universo come summa delle diverse cose che lo definiscono, lo determinano, lo strutturano. Affascinato per le stesse ragioni dall'elemento-acqua, il filosofo di Mileto visitò a più riprese l'Egitto. E in questi viaggi restò meravigliato nell'osservare le piene stagionali del Nilo, che rendevano verdi fertili e lussureggianti vaste estensioni di territorio in gran parte desertico, o incolto, al punto da considerare l'acqua - nella nuance di qualsiasi materiale liquido - come la matrice originaria della vita in tutte le sue differenti forme. Così facendo Talete getta le basi della fisica come scienza filosofica, e nello stesso tempo va oltre la fondazione di essa. La teorizzazione dell'archè, infatti, ci pone di fronte al tentativo di dare unità speculativa e concettuale al reale, quasi una legge o una chiave di volta necessaria a penetrare l'universo, a scardinarne i meccanismi più reconditi e più difficili non già da capire, in una prospettiva premoderna o moderna, ma da intendere e comprendere secondo un ordinamento razionale. Esiste quindi una filiazione della filosofia dalla fisica come scienza del problema-natura e dell'intrico cosmologico in Talete; tuttavia questa genesi dello scienza filosofica, che in Talete dipende e si conforma alla genesi della scienza fisica senza che possano riconoscersi separatamente e distinguersi chiaramente, può comunque permettere (implicare) la ricerca di altre forme di sapere originario, universale e sperimentale. È il caso della geometria, che era conosciuta ed apprezzata nel mondo antico, specialmente in Egitto e nel Medio Oriente, ma dove vi svolgeva un ruolo prassico-concreto, in nessun modo collegato ad una astrazione e sublimazione nel pensiero, nel processo della razionalità non empirica. Talete, che trasse il suo interesse per la geometria e le matematiche dal contatto con le genti del Nilo e della Mesopotamia, sviluppò proprio le basi di queste scienze inglobandole nella più ampia riflessione filosofica. Nel paragrafo successivo vedremo di quale entità è il contributo di Talete alla storia e alla teoria della matematica, e in che modo questo contributo ha influenzato la filosofia delle origini. Talete "genio" matematico ma non solo Analizzando le idee di Talete si ha la sensazione di avere a che fare con un pensiero globale, quasi completamente focalizzato sulla creazione di un pensiero filosofico unitario, coerente e di conseguenza non molto duttile. Tuttavia il genio e l'ingegno taletico non ama specializzarsi esclusivamente a quell'indirizzo di ricerca che Pitagora battezzò stupendamente col nome di phylosophìa, o forse è meglio dire che il suo concetto di filosofia era talmente impreciso (vasto) da sconfinare in altri ambiti disciplinari, come per exemplum nella geometria, materia in cui realizzò importanti scoperte. Nel Commento al primo libro degli Elementi di Euclide (157,250-251, 299, 352) Proclo assegna al mitico Talete diversi teoremi di carattere geometrico. In particolare, viene attribuito al Milesio un metodo che permetteva di misurare l'altezza alle piramidi, determinandone con facilità l'ombra quando questa è pari all'altezza della figura che la proietta (Plutarco, Convivio dei sette sapienti; Plinio, Historia naturalis). Questo metodo sembra anticipare il celebre teorema delle proiezioni, per il quale, avendo base, spigolo e coseno dell'angolo d'inclinazione è possibile misurare l'altezza. È evidente che Talete sia pervenuto autonomamente, senza conoscere affatto il concetto matematico di coseno, a scoprire e mettere in pratica il teorema delle proiezioni. Altra grande intuizione di Talete sembra essere il teorema omonimo, secondo il quale due rette complementari intercettano su un sistema di rette parallele del loro piano segmenti tali che quelli corrispondenti hanno lunghezze in proporzione. Dal punto di vista matematico, la testimonianza di Giamblico getta luce sulla brillantezza d'idee del Milesio, nel momento in cui quest'ultimo concepisce il numero come un sistema di unità, anticipando così l'aritmogeometria di Pitagora e dei suoi epigoni. Inoltre, per un allievo di Aristotele, Eudemo, Talete si impegnò con tutte le sue forze per ottenere calcoli "universalissimi". Attraverso l'universalizzazione di concetti matematici va colta quindi la volontà di fondare lo speculativo su basi non speculative, di fare filosofia sviluppando le premesse della geometria. Come accennato, il filosofo di Mileto fu in contatto con le civiltà egizie e mediorientali, e da queste derivò un certo interesse, oltre che per il problema cosmologico, anche per l'astronomia. Nella interpretazione taletica l'universo è visto come una enorme semisfera ricolma di aria. La parte concava della semisfera è sovrastata dal cielo, quella piatta inferiore è occupata dalla terra che galleggia come una foglia sulla superficie di un corso d'acqua. Talete, padre presunto e sempre presumibile della filosofia, può essere assunto a simbolo e cifra del pensatore eclettico, che rinuncia all'ideale dell'atomismo intellettuale, rinuncia cioè a concentrarsi su un solo cotè del sapere, per confrontarsi di volta in volta con un differente ambito euristico, di ricerca filosofica sperimentale. Intesa in questo senso, la metodica euristica inaugurata da Talete rappresenta la via maestra della ricerca filosofica, nella quale il teoreta sceglie liberamente il suo campo di studio, sviluppando una o più teorie movendo da spunti che trova in sé stesso, nella propria motivazione e cultura di origine. Influenzato dal suo maestro, di cui era forse parente (più esattamente nipote), Anassimandro proseguì l'ottica di Talete in una direzione diversa e per certi versi più evoluta; soprattutto è considerato l'autore del primo testo filosofico che si conosca suo trattato Perì phýseos (Sulla natura), e, non ostante se ne possa leggere solo un frammento, può essere ricordato come il primo pensatore-scrittore, il primo creatore di filosofia come e in quanto genere letterario - in una nuance forse assimilabile al Testualismo novecentesco ed alle sue brillanti decostruzioni, interpretazioni, narrazioni.

Nemrut

In cima al Monte Nemrut , alto 2.150 metri, considerata la montagna più alta della Mesopotamia del nord, è situato il gigantesco santuario funerario eretto nel I sec. a.C. dal Re Antioco I di Commagene.

L'ingegnosità dimostrata per creare questo tumulo artificiale, fiancheggiato da terrazze ove posano le colossali statue di Apollo, Giove, Ercole, Tyche, Antioco ed altri continuano a stupire i visitatori.
II tempo ha purtroppo danneggiato queste sculture; i torsi e le teste così ben scolpiti, giacciono davanti ai loro piedi.

Nell'antica Arsameia di Nymphaios, (Eskikale), un magnifico rilievo rappresenta Ercole che saluta Mitridate, Re di Commagene.
I letterati pensano che queste vestigia siano quelle del Palazzo Commagene. Dalla parte opposta di questo sito, diviso dal fiume Eski Kahta, si trovano le rovine del Yenikale (Castello Nuovo) costruito dai Mammelucchi. Altri citi vicini, il ponte Cendere dell'epoca romana e Karakuş, con un altro tumulo reale commagene.
La scoperta del petrolio in questa regione, ha fatto prosperare Adıyaman (km 153 a nord- est di Gazi Antep). II Museo Archeologico di Adiyaman, custodicce vari oggetti della regione, provenienti dal Basso-Eufrate e che risalgono all'Era Neolitica e Calcolitica. Kilims dai bei colori e di buona qualità, sono venduti nei bazar a prezzi ragionevoli. Tra i monumenti possiamo citare le rovine di una cittadella abbaside, restaurata dai selgiuchidi, e la Moschea Ulu del XIV sec..
A km 5 a nord di Adiyaman si trova Pirin (Perre) e la sua necropoli con numerose tombe scavate nella roccia, risalente all'epoca romana, Adiyaman e Kahta (che hanno buone accomodazioni e facilità di campeggio), sono delle ottime basi per chi intende visitare il Parco Nazionale del Monte Nemrut.

A km 670 ad est di Ankara, Malatya, è una città attiva, situata su una pianura fertile, alle falde delle montagne Anti-Tauriche. II Museo Archeologico custodisce dei pezzi recentemente trovati nella regione dell'Asagi Firat (Basso-Eufrate) che appartengono all'era neolitica e calcolitica. Vicino al museo, potete fare dello "shopping" nel bazar dove si trovano molti oggetti di rame.

Malatya è il centro di produzione di albicocche; queste si posssono assaggiare fresche o secche custodite in ottime confezioni. Le due piccole città che esistevano prima ancora dell'attuale Malatya sono: Aslantepe, a km 7, che nel I millennio a.C. èra una città dell'impero ittita, e Battalgazi, a km 9, che anticamente era la città di Melitene. Troviamo inoltre, più recente nel tempo, le rovine di un recinto bizantino, e, nel centro della città, la Moschea Ulu, eccellente esempio di architettura selgiuchida del XIII sec.

Goliarda Sapienza

morì a Gaeta dove amava stare a lungo sulla spiaggia a guardare il mare. Ne aveva passate tante: dal successo come attrice negli anni ’40 all’abbandono della carriera per un’intensa attività di scrittura; vicende giudiziarie che l’avevano portata in carcere a Rebibbia - dove è nato il libro “L’Università di Rebibbia” - e verso la fine della sua vita l’insegnamento al Centro Sperimentale di Cinematografia. Veniva dalla Sicilia e nella sua scrittura si avverte il ritmo fluente del mare che s’increspa e si acquieta. Una scrittura diretta, corporale perché vibra di tutte le impressioni di quella intelligenza dei sensi fisici pronta a cogliere ogni sfumatura, ogni trasformazione lì dentro nel nostro compagno di lungo corso, il corpo. E quindi può parlare della sessualità, dell’amore fisico in modo libero, diretto, arioso, profondo mai volgare o gratuito. Colpisce subito nelle prime pagine la netta presenza della fisicità dell’amore, della sua bellezza e necessità. Questa capacità non di descrivere ma di entrare nell’intimo di una situazione erotica svelandone ogni piega nascosta: la dolcezza, i trasalimenti e gli abbandoni. La copertina di questo libro scritto nell’arco di nove anni - dal 1967 al 1976, anni densi, tormentati, felici - è di un arancio che quasi sconcerta se non fosse per quella maschera etrusca che fa la linguaccia a mò di sfida: “E adesso, se ti va, prova a leggermi!”. Sul retro c’è lei, Goliarda, che fuma una sigaretta stesa su un’amaca e quel suo sguardo mite, con gli occhi sofferti e comprensivi, sembra di ritrovarlo nelle pagine del libro. Cos’è l’arte della gioia, misteriosa eppure chiara protagonista dell’opera, che s’incarna nella vita del personaggio principale, Modesta?Ragazzina che conosce precocemente la felicità e il dolore, cresciuta in un monastero di suore, poi in una nobile dimora retta da una poderosa e anziana signora, la principessa Gaia, sua avversaria e maestra di vita; Modesta crescerà, saprà cavarsela e vivere intensamente ogni esperienza portando il suo pensiero a quella volontà lucida di essere felice perché pienamente autrice di se stessa, in grado di non soccombere ai pregiudizi, a quello che una donna deve fare o essere. La storia, quella a lettere maiuscole che percorre la prima metà del secolo scorso, rivive nel libro attraverso le sue sensazioni, non irrompe mai come protagonista, emerge solo dallo sfondo. Gli occhi del libro sono quelli di Modesta che racconta la sua vicenda ma anche quelli di una narratrice che si confonde con lei, così che i passaggi dalla prima alla terza persona sono fludi, senza alcuno stacco. Il tempo scorre e a volte salta in modo netto da un capitolo all’altro ma più che una cesura, un taglio deciso è un tempo interiore ritmato dalla volontà di Modesta di comprendere tutto quello che le accade intorno e non farsene dominare. Sono ore, minuti, giorni, anni di chi è autore della propria storia. Modesta, diventata principessa, darà vita a una comunità di figli naturali e acquisiti, amici che si perdono e si ritrovano, dove i personaggi crescono secondo la necessità del loro percorso interiore, senza vincoli od obblighi di sorta. Un luogo segnato dai ritmi delle stagioni, dalla presenza del mare, dalla vita scandalosa per occhi estranei che vi si svolge dentro. Un libro cinematografico perché fatto d’immagini che restano impresse per la loro vivacità e per una ricchezza nella capacità di descriverle e farle vedere allo sguardo interiore sicuramente originale. Una gioia, quella che attraversa la vita di Modesta e dei suoi compagni, cercata, odiata, allontanata, desiderata. Una gioia che coincide con la lucidità del pensiero e del dubbio che Modesta coltiva come sola possibilità di essere indipendente dalla pastoie del conformismo.Goliarda Sapienza scriveva di mattina con delle penne bic su dei piccoli quaderni che le ricordavano quelli della sua infanzia. Finito di scrivere scendeva le scale e talvolta piangeva. Lacrime di gioia per quel tempo rubato anche alla felicità, come amava definire la scrittura. Eppure quanto di guadagnato alla fine!Quella gioia che nasce dalla necessità, dalla bellezza di portare a termine qualcosa che spinge a tutti i costi per vivere.